Quest’anno mi son detto: perchè raggiungere parrocchiani ed amici da ogni dove con il “consueto” o “tradizionale” augurio? Abbiamo bisogno di novità di vita, ora più che mai. Abbiamo necessità di riconoscere in coloro che ci sono fratelli, semi e gesti di risurrezione autentica.
E allora, carissimi tutti, vicini e lontani, a voi il mio augurio più sincero e fraterno, affidandolo alle parole uniche dello scrittore Alessandro D’Avenia, recentemente pubblicate su un quotidiano…ci annunciano la vita, ci indicano la Pasqua! il don
«Spense la luce, avanzò a tentoni nella camera da letto e si lasciò cadere sul giaciglio: le lacrime sgorgarono. Soltanto dormire, solo dimenticare, non essere. In preda all’angoscia giaceva accasciato sul letto. Nulla poteva più dargli consolazione, perché Dio l’aveva abbandonato ed estromesso dal sacro fiume della vita!». Così Stefan Zweig descrive la disperazione del grande compositore Georg Friedrich Händel, in uno dei magistrali racconti di Momenti fatali, libro che narra gli istanti in cui grandi uomini incontrarono il loro destino. Per Händel avvenne in una soffocante notte di agosto del 1741: la vena creativa era prosciugata, nessuno gli commissionava nuovi lavori e i soldi erano finiti. A 56 anni, senza musica, era perduto e voleva morire: «In un accesso di collera pronunciò le parole di Colui che moriva sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”». Parole che mi fanno pensare a un amico solo e in fin di vita a causa del virus; e mi ricordano quei momenti in cui sembra di aver perso tutto: l’ispirazione, la fiducia, la speranza, la vicinanza degli altri e di Dio.
Questo abisso è in realtà un «passaggio» (questo significa Pasqua in ebraico): anche Cristo sperimenta il muro invalicabile della solitudine, ma lo trasforma in apertura. Il Figlio infatti chiede al Padre perché l’abbia abbandonato con le parole iniziali del profetico Salmo 21, che non sono un urlo disperato, ma l’atto di fiducia di chi, non potendo più confidare nelle proprie forze, si affida, come mostrano le sue ultime parole: «Padre, nelle tue mani metto la mia vita». Voler ricevere la vita dal Padre: questa è la fede, dono dato a chiunque accetti di non potersela dare da solo. Quando perdiamo ciò su cui puntiamo di più (amore, affetti, carriera), la vita ci si mostra nella sua nuda fragilità e: o ci si perde o ci si ritrova una volta per sempre, come accadde a Händel. In preda all’angoscia del suo Getsemani personale, si alzò ed entrò nello studio: sul tavolo c’era una busta dimenticata. Gliel’aveva recapitata un amico poeta, era il testo per una composizione sacra, che solo lui poteva musicare: «Alle prime parole tremò. “Comfort ye”, così iniziava. “Consolati!”: emanava un potere magico da questa parola, anzi no, non una parola ma una risposta, la risposta di Dio, che scendeva dai cieli fino al suo cuore dolente. «Consolati», resuscita l’anima al suono di questa parola creatrice, generatrice! Non aveva finito di leggere e già le parole si scioglievano in melodia e canto. Quale gioia, le porte si erano spalancate: sentiva di nuovo in musica!». Dio aveva risposto proprio a lui, che finalmente lo riconosceva come Fonte dell’unica cosa in cui credeva: la musica. E così dalle parole inattese dell’amico sgorgò il Messiah, capolavoro noto a tutti perché almeno una volta ne abbiamo sentito il portentoso Alleluia corale. Per tre settimane Händel si «abbandonò» alla creazione, dimenticando il giorno e la notte, come accade quando l’eterno apre un passaggio nella storia attraverso quella porta che solo noi possiamo aprirgli. Quando gli chiesero di donare a malati e carcerati i profitti della prima (il 13 aprile del 1742), rispose: «No, non voglio denaro per quest’opera, non ne accetterò mai, io che ne sono debitore a un Altro. Apparterrà per sempre ai malati e ai reclusi, perché io stesso ero infermo, e mi ha risanato, ero prigioniero, e mi ha redento». Così fu fino al 6 aprile (oggi) del 1759 quando, 74enne, cieco e malato, presagendo il «passaggio» finale, volle dirigere di persona il Messiah: era il suo sì a Dio. Pochi giorni dopo, il 14 aprile, sabato santo, entrava nella vita eterna dalla porta che s’era aperta con la sofferta bellezza della sua opera.
La Pasqua è proprio l’opera che Dio fa per restituirci la somiglianza con Lui: essere creatori di vita. La cosa di cui più sono grato a Dio è infatti che posso attingere sempre alla fonte da cui sgorgano l’inventiva, l’iniziativa, il coraggio tipici di chi è innamorato, anche se non ne sono all’altezza. Noi ci realizziamo portando a compimento le potenzialità della vita (nel morire Cristo dice «Tutto è compiuto») nostra e altrui, ciascuno nel suo ambito, ma le nostre energie creative sono spesso bloccate. Fatti per ricevere e dare vita (creare e crescere hanno la stessa radice), quando creiamo qualcosa di vero, bello e buono, anche minimo, cresciamo e facciamo crescere il mondo. Se invece siamo preda di forze distruttive, tendiamo a strappare la vita a cose e persone: de-cresciamo e facciamo de-crescere il mondo. La Pasqua serve a ritrovare la gioia di «fare la vita», in e attorno a noi, diventando noi stessi il «passaggio» attraverso cui l’Amore entra nella storia, grazie a ciò che creiamo. Così fu per Händel, che salvò se stesso e tanti uomini abbandonati, attraverso la musica che pensava di aver perso. In realtà aveva perso Dio, non la musica: ascoltare per credere.
Auguri!